Psicosi affettiva: la guida completa

La psicosi affettiva è una condizione in cui il paziente presenta disturbi del pensiero e dell’umore che possono manifestarsi attraverso sintomi psicotici come allucinazioni o deliri. Scopri come superarla.

Le psicopatologie sono tantissime e variegate, sia nella loro natura che nella manifestazione dei sintomi. Alcune persone riescono a convivere con il loro disturbo, al punto da riuscire a trovare un buon equilibrio che consenta loro di proseguire con la loro vita nonostante esso. Altri, invece, sono davvero devastanti e molto difficili da gestire. Tra questi troviamo i disturbi dell’umore gravi e quelli dello spettro psicotico.

C’è anche una psicopatologia che condensa in sé gli aspetti principali di queste due categorie in una sola diagnosi: il DSM-5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali) la identifica come disturbo schizoaffettivo e la racchiude all’interno del capitolo dei disturbi psicotici, ma spesso è conosciuta come psicosi affettiva.

Ma che cos’è la psicosi affettiva? Come si può riconoscere osservando il comportamento delle persone che ne soffrono? E a quali altri disturbi è simile?

Di seguito, approfondiremo tutti questi aspetti in una guida completa sulla psicosi affettiva.

Che cos’è la psicosi affettiva?

Iniziamo dal definire in maniera precisa che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di psicosi affettiva. La terminologia corretta, come abbiamo accennato, è quella di disturbo schizoaffettivo che, come suggerisce il termine, viene catalogato all’interno della classificazione nosografica del DSM tra i disturbi psicotici.

La psicosi affettiva è un disturbo della sfera psicotica, caratterizzato dai sintomi tipici di quest’ultima ma anche da importanti fluttuazioni dell’umore. Si riconosce, pertanto, dalla presenza di deliri e allucinazioni e dalla presentazione di uno o più episodi di alterazione significativa dell’umore (depressione maggiore o stato maniacale) che avvengono sempre in concomitanza con la fase attiva della psicosi che, invece, può presentarsi anche da sola.

Date queste caratteristiche, il disturbo schizoaffettivo è simile ad altri disturbi della sfera affettiva, in particolare al disturbo bipolare.

Per definizione, infatti, devono essere presenti i sintomi della fase attiva della schizofrenia, che possono presentarsi sia da soli che insieme a un episodio di alterazione dell’umore in senso up (mania e ipomania) oppure down (depressione con umore triste). Per porre diagnosi, comunque, le alterazioni dell’umore non devono essere presenti tutto il tempo, ma alternarsi a periodi di almeno due settimane in cui persistono i sintomi psicotici.

In buona sostanza, possiamo dire che la psicosi affettiva è una commistione infelice tra schizofrenia e disturbo bipolare o depressivo maggiore, un connubio che risulta particolarmente difficile da gestire sia per il paziente che per chi gli sta accanto.

Quali sono i sintomi della psicosi affettiva?

La diagnosi di psicosi affettiva viene posta non solo durante la fase attiva, ovvero nel periodo in cui i sintomi della schizofrenia sono acuti, ma è possibile anche in fase di remissione, quando ne rimangono solo gli strascichi ma è possibile affermare che ci sia stata una fase acuta di lunga durata in cui la persona ha manifestato in maniera continuativa deliri e allucinazioni.

È necessario anche che si sia verificato almeno un episodio dell’umore maggiore in concomitanza con la sindrome psicotica. Questo significa che deve esserci stato almeno un episodio di depressione maggiore o di mania.

Non è sufficiente l’apatia per diagnosticare il disturbo schizoaffettivo, dal momento che questa condizione è molto comune tra le persone che soffrono di schizofrenia. Perciò è necessario che, tra i sintomi, sia incluso l’umore pervasivamente depresso, al punto da avere delle ripercussioni sulla vita di tutti i giorni.

Allo stesso modo, anche l’ipomania (una forma più lieve di mania) non viene presa in considerazione, dal momento che potrebbe far parte delle stranezze e del carattere bizzarro di una schizofrenia conclamata. Ai fini della diagnosi di psicosi affettiva conta solo la mania vera e propria.

Per distinguere la psicosi affettiva dai più comuni disturbi dell’emotività, come depressivo e bipolare, è necessario che si registrino anche periodi di almeno 2 settimane in cui a un umore normale continuano ad associarsi sintomi psicotici: questo indica che le alterazioni del primo non sono causate dalla presenza dei secondi ma, piuttosto, stiamo parlando di due sintomi che vanno a comporre una sola sindrome.

Infine, questa malattia causa una considerevole compromissione nella vita di tutti i giorni, rendendo difficile, per esempio, mantenere un lavoro, oppure delle relazioni sociali stabili. Si tratta, inoltre, di persone che hanno una scarsa consapevolezza della loro malattia: non sanno definirla, non vedono i problemi che causa alla loro esistenza, e non concepiscono di essere malate.

Quanto dura la psicosi affettiva?

Il disturbo schizoaffettivo non è molto comune, riguardando circa lo 0,3% della popolazione, soprattutto femmine. Tipicamente l’inizio si verifica nella prima età adulta, anche se in certi casi l’esordio può essere tardivo e viene riconosciuto solo quando la compromissione del tono dell’umore è talmente evidente da diventare ingestibile.

L’andamento della malattia, come dicevamo, è caratterizzato da un continuo presentarsi e scomparire degli episodi di alterazione dell’umore, oltre che da una costante presenza dei sintomi psicotici. Data la complessità della psicopatologia, la prognosi è peggiore rispetto ai disturbi dell’umore puri e dipende molto dal tipo di cure ricevute.

La psicosi affettiva, infatti, non è un tipo di disturbo che passa in maniera spontanea, ma necessita di essere trattato con una terapia farmacologica che sia in grado di mantenere in equilibrio l’umore e i sintomi psicotici.

Le cause della psicosi affettiva

Come per la stragrande maggioranza delle psicopatologie, anche nel caso della psicosi affettiva non possiamo parlare propriamente di causa, ma piuttosto di un insieme di fattori che, presentandosi in concomitanza e interagendo tra loro, possono contribuire allo sviluppo del disturbo: prima di tutto troviamo la componente genetica. Il rischio di sviluppare un disturbo schizoaffettivo, infatti, è molto più elevato per chi ha parenti di primo grado che a loro volta ne soffrono, oppure riportano problematiche come la schizofrenia o un disturbo dell’umore.

La familiarità, quando trova un substrato biologico favorevole, può facilmente insediarsi e favorire lo sviluppo di un disturbo mentale.

I rimedi per la psicosi affettiva

Abbiamo detto che la psicosi affettiva è una condizione molto complessa, che richiede certamente l’intervento di un clinico per le complicazioni che porta al paziente nella gestione della sua vita, il malessere che causa e la condizione in cui viene posto chi si trova accanto a una persona che soffre di questo disturbo.

È comunque possibile, una volta stabilita la diagnosi, progettare un intervento su misura che aiuti la persona a ritrovare il suo equilibrio. Il paziente, il più delle volte, non è consapevole di questo disagio e della sua natura, ed ecco perché è fondamentale coinvolgere i famigliari, come primo passo. La presenza dei cari è essenziale per avere un quadro più obiettivo e realistico, oltre che per raccogliere informazioni aggiuntive.

Nel caso del disturbo schizoaffettivo, come trattamento, si raccomanda la combinazione di due tipi di intervento, ovvero la psicoterapia e la cura farmacologica. La prima avrà più lo scopo e gli obiettivi della psicoeducazione: servirà per avvicinare il paziente a prendere coscienza del suo disturbo e della moltitudine di problemi che gli sta causando, in modo da trovare la motivazione, prima di tutto, per applicarsi a quanto apprenderà durante il percorso. In seguito gli verranno proposte e insegnate delle strategie che lo aiuteranno a rendersi più autonomo nella gestione di se stesso nonostante la malattia.

La terapia farmacologica, invece, è necessaria per contrastare i sintomi psicotici, che non renderebbero il paziente nemmeno in grado di partecipare con la giusta convinzione a un colloquio di psicoterapia, oltre che a stabilizzare l’umore. Questo, infatti, può essere talmente compromesso da limitare del tutto il potere di azione del paziente.

Psicoterapia e farmacologia, in questo caso, devono necessariamente andare a braccetto e spalleggiarsi a vicenda: solo grazie a una perfetta sinergia è possibile aiutare la persona a raggiungere la vita migliore possibile.

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Revisori

reviewer

Dott. Domenico De Donatis

Medico Psichiatra

Ordine dei Medici e Chirurghi della provincia di Pescara n. 4336

Laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Parma. Specializzazione in Psichiatria presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.

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Dott. Federico Russo

Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Neuropsicologo, Direttore Clinico di Serenis

Ordine degli Psicologi della Puglia n. 5048

Laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti. Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a indirizzo neuropsicologico presso l’Istituto S. Chiara di Lecce.

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Dott.ssa Martina Migliore

Psicologa Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Ordine degli Psicologi dell'Umbria n.892

Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, docente e formatrice. Esperta in ACT e Superhero Therapy. Membro dell'Associazione CBT Italia, ACT Italia e SITCC. Esperta nell'applicazione di meccaniche derivanti dal gioco alle strategie terapeutiche evidence based e alla formazione aziendale.