Empatia: che cos’è davvero?

La capacità di comprendere e condividere le emozioni e le prospettive degli altri è l’empatia. È fondamentale per costruire relazioni significative e per favorire un clima di comprensione e collaborazione reciproca.

Che cos’è l’empatia? Probabilmente pensi di avere una risposta a questa domanda, ma in psicologia ogni parola ha un significato preciso. In particolare, l’empatia è difficile da definire e alcuni studiosi sono arrivati a mettere in dubbio la sua esistenza.

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Il significato dell’empatia

Per provare a dare una prima definizione alla parola empatia, risaliamo alle sue origini: deriva dal greco, e letteralmente vuol dire “sentire dentro”. Empatia, quindi, significa mettersi al posto degli altri e intuire le loro emozioni. Non solo: empatia vuol dire anche fare proprie queste emozioni e viverle sulla propria pelle, condividendo così il vissuto dell’altra persona.

Empatia e teoria della mente

Secondo questa definizione, quindi, l’empatia non ha nulla a che fare con il “leggere nella mente dell’altro”: non è una comprensione razionale. Questo, piuttosto, è il significato di un’altra funzione, che si chiama teoria della mente. Con questa espressione, infatti, si intende la capacità di comprendere pensieri, emozioni e sentimenti delle altre persone e di prevederne i possibili comportamenti e reazioni sulla base di queste supposizioni. Si tratta, insomma, di un ragionamento che deriva dall’abilità di cambiare prospettiva, ma non ha nessun risvolto a livello emotivo. La teoria della mente ha una natura cognitiva, non significa vivere le emozioni altrui.

Empatia e simpatia

Allo stesso modo, essere empatici non implica necessariamente sentire la spinta ad aiutare una persona che sta male e con la quale ci si sente sintonizzati: a volte non lo facciamo perché non ne siamo in grado, non sappiamo come comportarci oppure non abbiamo la giusta motivazione a farlo. Quindi, empatia e comportamento prosociale sono anch’essi separati e il senso di urgenza che sentiamo quando desideriamo far star meglio una persona che soffre prende piuttosto il nome di simpatia. In questo caso mostriamo interesse e preoccupazione e siamo spinti ad aiutare, ma non significa che condividiamo un’emozione. Oltretutto, non per forza l’empatia si attiva nei casi di emozioni negative: è anche possibile condividere un momento di gioia, commozione o sorpresa.

Empatia e compassione

Piuttosto, l’empatia è più vicina al concetto di compassione, secondo il significato che gli attribuiva la cultura ellenica. Per gli antichi Greci, infatti, la compassione era la virtù di riuscire a sentire esattamente ciò che sentono gli altri, in maniera spontanea, senza nessuna riflessione o ragionamento. Un significato ben lontano da quello che la parola compassione ha nel nostro tempo, che ha più a che fare con la pietà, il compatimento e la commiserazione, e quindi non ha sempre un senso positivo.

Lo studio del concetto di empatia


Dall’epoca del mondo antico, ovviamente, si sono susseguiti studi da parte di psicologi che hanno provato a formulare delle teorie sull’empatia. Ad esempio, Goleman ne parlava come di un’abilità fondamentale dell’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di comportarsi in modo adeguato e funzionale con gli altri e di gestire le proprie e altrui emozioni.

Ma fu Hoffman a darne una concettualizzazione più completa, spiegando anche il modo in cui l’empatia si sviluppa fin dall’infanzia. Lo psicologo americano individuò alcuni stadi che seguono questa successione:

  • contagio emotivo: nei primi mesi di vita il bambino non ha netti confini tra il Sé e l’Altro, quindi si lascia invadere dalle emozioni altrui sperimentandole come sue;
  • distress empatico egocentrico: il bambino riesce a distinguersi come essere separato dagli altri, ma non capisce che gli altri potrebbero provare delle emozioni diverse dalle sue ed è completamente incentrato su se stesso;
  • distress empatico quasi-egocentrico: questa fase coincide con le prime basi della formazione della teoria della mente. Il piccolo inizia a capire che le emozioni degli altri possono essere differenti dalle sue, ma non è ancora efficace nelle reazioni. Ad esempio, se vede un adulto triste, cerca di consolarlo nel modo in cui vorrebbe essere consolato lui, porgendogli un giocattolo o un dolcetto;
  • empatia situazionale: la teoria della mente è per lo più acquisita e il bambino impara ad assumere il punto di vista degli altri fino a che questa abilità non diventa spontanea, senza necessità di riflettere sulla situazione;
  • empatia oltre la situazione: nell’ultimo stadio il bambino diventa capace di ragionamenti astratti, senza dover per forza fare riferimento a una particolare situazione. In questo modo è capace di provare empatia anche per persone ipotetiche, ad esempio le vittime di un disastro naturale.

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L’empatia esiste davvero?

Abbiamo detto che l’empatia implica la condivisione di un’emozione provata da qualcun altro, ma fino a che punto questo è possibile? Come possiamo, in quanto persone distinte dagli altri, capire un altro al punto da sapere esattamente che cosa prova in una certa situazione? Questo è il motivo per cui tra gli psicologi ce ne sono alcuni che non credono al concetto classico di empatia e hanno messo addirittura in discussione la possibilità della sua esistenza.

Riflettiamo su questo punto, immaginando una situazione in cui provi empatia per un’altra persona. L’emozione che stai condividendo con l’altro è stata innescata da un evento. Ma se a te fosse accaduta la stessa cosa, avresti provato la stessa identica emozione? Forse avresti avuto una sfumatura di rabbia in più, un pizzico di senso di colpa in meno, o una nota di frustrazione che avrebbe colorato la tua tristezza in un modo leggermente diverso. Ciascun essere umano è unico e irripetibile, perciò di fronte allo stesso evento le nostre reazioni possono variare. In pratica, la mia gioia non sarà mai identica alla tua, e la tua paura non sarà mai uguale alla mia.

In secondo luogo, conoscendo benissimo la persona con la quale condividiamo l’emozione, possiamo farci un’idea precisa dell’emozione che sta sentendo, ma proprio perché non coincide con il nostro modo di emozionarci, non stiamo empatizzando, ma facendo un ragionamento. Di conseguenza, non stiamo usando l’empatia ma la teoria della mente.

Potremmo quindi dire che l’empatia in senso stretto, intesa come capacità di provare sulla nostra pelle un’emozione identica a quella di un altro, è un concetto poco realistico. L’intensità, la qualità e il colore dell’emozione che avvertiamo noi saranno sicuramente diversi, per il semplice fatto che ciò che è successo all’altro non è capitato a noi. Ma questo non vuol dire che l’empatia non esiste: anzi, potremmo dire che, quanto empatizziamo, noi condividiamo un’emozione che è simile a quella dell’altro, ma la moduliamo e la facciamo nostra in base al nostro peculiare modo di emozionarci.

A che cosa serve l’empatia?

Forse penserai che le persone empatiche, ovvero con una maggiore propensione all’empatia, siano facilitate nelle interazioni. Ma ciò non è sempre vero. Abbiamo detto che empatizzare non è un processo razionale: la teoria della mente si occupa di comprendere gli stati mentali degli altri effettuando un ragionamento, e questa competenza è più utile nella vita quotidiana. Infatti, non serve provare l’emozione di un altro per sapere come comportarsi: basta intuire quale possa essere questa emozione.

In più, la condivisione di un’emozione può comportare anche delle conseguenze negative. Immagina di provare empatia per un tuo caro amico che si sente disperato perché si trova in una situazione per la quale non vede via d’uscita. Il coinvolgimento che provi soffrendo insieme a lui non ti dà informazioni su come aiutarlo. Anzi, in certi casi questo può avere un effetto paralizzane, rendendoci incapaci di reagire e rimanendo invischiati nella sofferenza dell’altro. Per questo motivo, un costrutto “freddo” come la teoria della mente può fornire degli strumenti migliori.

Tutto ciò non significa che l’empatia sia inutile, perché ci rende persone sensibili e attente ai bisogni altrui, aperte e pronte ad accettare e accogliere gli altri. Soprattutto, è una qualità indispensabile nelle professioni di aiuto, in cui però deve essere accompagnata da una capacità di rimanere lucidi, tenere sotto controllo il proprio coinvolgimento e delineare i confini tra sé e l’altro.

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Redazione

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Revisori

reviewer

Dott. Domenico De Donatis

Medico Psichiatra

Ordine dei Medici e Chirurghi della provincia di Pescara n. 4336

Laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Parma. Specializzazione in Psichiatria presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.

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Dott. Federico Russo

Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Neuropsicologo, Direttore Clinico di Serenis

Ordine degli Psicologi della Puglia n. 5048

Laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti. Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a indirizzo neuropsicologico presso l’Istituto S. Chiara di Lecce.

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Dott.ssa Martina Migliore

Psicologa Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Ordine degli Psicologi dell'Umbria n.892

Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, docente e formatrice. Esperta in ACT e Superhero Therapy. Membro dell'Associazione CBT Italia, ACT Italia e SITCC. Esperta nell'applicazione di meccaniche derivanti dal gioco alle strategie terapeutiche evidence based e alla formazione aziendale.