Appiattimento affettivo e anedonia: il disagio di non provare emozioni

L’anedonia può influenzare notevolmente la qualità della vita e può essere trattata attraverso terapie psicologiche, farmacologiche o una combinazione di entrambe, a seconda della causa sottostante e delle esigenze individuali del paziente.

Ti è mai capitato di avere la sensazione di non provare emozioni, che siano emozioni primarie o secondarie? Qualsiasi stato d’animo, positivo o negativo, sembra essere cancellato, e il tuo mondo emotivo rimane imprigionato senza possibilità di essere espresso, nemmeno con le persone che ti sono più vicine.

Questo fenomeno ha un nome: appiattimento emotivo. Di seguito scoprirai tutto ciò che vuoi sapere su questo fenomeno, che spesso si accompagna alla perdita di piacere, l’anedonia. Non perdere la speranza: la guarigione è sempre possibile.

Non provare emozioni: che cos’è l’appiattimento emotivo

I concetti di appiattimento emotivo e anedonia sono strettamente collegati. Le primo caso, parliamo di assenza della capacità di provare emozioni di qualsiasi tipo. Di conseguenza, anche le emozioni positive svaniscono, così come la possibilità di provare piacere per le cose che normalmente lo comportano. Questa è appunto l’anedonia, che rende tutto indifferente, al punto che le passioni che prima regalavano gioia e soddisfazione, non sono più in grado di suscitare interesse. L’anedonia può essere generalizzata o ristretta ad alcuni ambiti, come le relazioni sociali, i modi di trascorrere il tempo libero o fonti di piacere più basiche come il cibo e il sesso.

L’anedonia è intrecciata con l’appiattimento emotivo, dal momento che entrambi causano un distacco così forte dal resto del mondo da non provare emozioni e da sentire tutto come indifferente. Spesso questi fenomeni accadono in circostanze di particolare dolore, in cui la persona soffre così tanto da mettere in atto, in maniera inconsapevole, una difesa per prendere le distanze dalle sue emozioni negative. Soprattutto, anedonia e appiattimento emotivo si presentano come sintomo di altre patologie, come depressione, schizofrenia e disturbi da abuso di sostanze.

Non provare emozioni né piacere può essere molto invalidante, poiché l’affettività positiva è alla base della motivazione per comportamenti in grado di produrre benessere. Se non c’è soddisfazione, la conseguenza saranno dei comportamenti di evitamento, per cui la persona smette di uscire con gli amici o di coltivare le sue passioni perché queste attività non le fanno più né caldo né freddo.

Quindi, se non si è invogliati a rivivere la sensazione positiva provata in precedenza, non si cercherà nuovamente di attuare i comportamenti che hanno apportato benessere e il mondo diventerà privo di significato e di tonalità emotiva. Certo, l’appiattimento emotivo consente di farsi scivolare addosso la sofferenza, ma porta anche lontano dal benessere. Si configura come una specie di isolamento emotivo che non tiene a distanza solo la sofferenza, ma anche le emozioni positive, impedendo di fatto alla persona di vivere.

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Le cause dell’appiattimento emotivo: da dove deriva il non provare emozioni?

Come abbiamo detto, l’appiattimento emotivo non è propriamente un disturbo che possiamo diagnosticare, ma piuttosto un sintomo che lascia pensare che qualcosa di più profondo stia creando una sofferenza intensa.

In particolare, quando soffriamo di depressione, il dispiacere che ogni giorno dobbiamo fronteggiare e ci porta il tono dell’umore ai minimi storici, a un certo punto può diventare insostenibile. Allora il cervello mette in atto un meccanismo difensivo per proteggerci dai momenti peggiori della depressione, ma il prezzo da pagare è il non provare emozioni in generale.

Se in fase iniziale si può anche riuscire a vivere normalmente, proseguendo con le occupazioni quotidiane. Non sentire più la sofferenza aiuta a continuare con il lavoro, a frequentare le solite persone, senza il tormento di quel dolore di fondo. Ma progressivamente inizia a farsi spazio l’idea che non soffrire non equivalga a essere felici e rimanere nell’isolamento mantenendo solo le relazioni per facciata o per abitudine non può condurre all’uscita dallo stato depressivo.

Quando ci si accorge che niente è più in grado di accendere un’emozione e che l’indifferenza ha preso posto del piacere e della soddisfazione anche nelle attività che prima regalavano uno slancio positivo, ci si inizia a preoccupare che qualcosa non vada. Ma, se si prova a riflettere su questo disagio, tante volte non si saprebbe dire quando sia iniziato e, soprattutto, non si ha idea di come fare a uscirne, perché si ha la percezione di essere totalmente sconnessi dalla realtà, di vivere in un mondo a parte, imperturbabile e indifferente, tanto alle cose belle quanto ai problemi, e questa consapevolezza non lascia alcun tipo di aggancio.

Ma questa sofferenza non è ciò che si percepisce all’esterno: le persone vicine a chi accusa questo appiattimento emotivo vedono l’altro come freddo, non curante, disinteressato a tutto. Alcune persone si rendono conto di quanto disagio crei il non provare emozioni perché per loro gli altri sono uno specchio: non necessariamente si interessano del giudizio altrui, ma questo funge da campanello da allarme sul fatto che la situazione sia atipica e insolita.

Agli occhi degli altri la persone che soffre di appiattimento emotivo appare molto cambiata, quasi irriconoscibile, ma attivarsi per cercare di migliorare la situazione non è facile, dal momento che è lo stesso meccanismo difensivo a porre un ostacolo al superamento del problema.

Non provare emozioni: che cosa succede nel cervello?

L’appiattimento affettivo può subentrare per la combinazione di una serie di fattori legati sia alla genetica (esiste, infatti, una familiarità per i disturbi depressivi) che all’ambiente. Le condizioni del contesto sociale e culturale in cui viviamo, infatti, possono influire sul nostro benessere e sono proprio le circostanze avverse a favorire una sofferenza di tipo depressivo.

Ma anche a livello neurobiologico esistono degli eventi che si mettono in moto quando si attiva il meccanismo che induce a non provare emozioni.

Fondamentalmente il problema risiede nel circuito della ricompensa. Si tratta di un insieme di aree della corteccia cerebrale e di altre strutture neuronali che, grazie ai neurotrasmettitori dopamina e serotonina, gestiscono la motivazione ad attuare un comportamento in grado di generare piacere in modo da ottenere una gratificazione. Quando non si provano emozioni, viene a mancare la spinta a ricercare una sensazione positiva, quindi l’area disinteressata dall’attività neuronale è soprattutto quella della corteccia cerebrale prefrontale, che si occupa di pianificare i comportamenti finalizzati a uno scopo. Questi, di conseguenza, non vengono più cercati, dal momento che l’adempimento di un’attività non è più in grado di generare piacere.

Oltre alla depressione, anche una condizione di stress che perdura da tempo, l’aver subito un trauma o il fare abuso di sostanze, possono portare a non provare emozioni e distaccarsi dalla realtà.

Come si supera il problema di non provare emozioni?

Il non provare emozioni è un sintomo che preoccupa molto i pazienti, per via di tutte le conseguenze che comporta ma anche del disagio e del senso di innaturalezza che la persona sente. Se ti stai chiedendo se sia possibile uscirne, sappi che può non essere una questione facile, dal momento che l’appiattimento affettivo è solo un aspetto superficiale di una sofferenza profonda al punto da essere insopportabile e necessitare di essere sedata e messa a tacere.

Tuttavia, non è qualcosa di impossibile: certo, in autonomia la spinta a darsi da fare manca perché il sintomo rimane finché la persona ne trae vantaggio, ma chiedere aiuto a un esperto può aprire la strada per una via d’uscita. Noi di Serenis proponiamo ai nostri pazienti percorsi di supporto psicologico o psicoterapia online proprio perché alcuni disagi necessitano di una guida sicura per poter essere messi da parte. L’obiettivo non è quello di contrastare direttamente l’appiattimento emotivo, ma risalire alle radici della sua manifestazione, andando a scavare fino a trovare la sofferenza che lo ha scatenato.

Lavorare sull’individuazione delle cause è il primo, fondamentale passo per pianificare un intervento che non sia mirato alla superficie, ma alla profondità, per estirpare il dolore alla radice e migliorare, di conseguenza, tutti gli altri aspetti che mettono in scacco la persona e la fanno stare male. Con il tuo psicologo o la tua psicologa potrai lavorare su una migliore comprensione dei tuoi processi mentali, dei tuoi pensieri e delle tue emozioni, individuando quali sono i tuoi bisogni. In questo modo potrai riprendere in mano la tua vita e puntare a migliorare il tuo benessere psicofisico ritrovando te stesso e la tua capacità di trarre piacere da ciò che ti fa stare bene.

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Revisori

reviewer

Dott. Domenico De Donatis

Medico Psichiatra

Ordine dei Medici e Chirurghi della provincia di Pescara n. 4336

Laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Parma. Specializzazione in Psichiatria presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.

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Dott. Federico Russo

Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Neuropsicologo, Direttore Clinico di Serenis

Ordine degli Psicologi della Puglia n. 5048

Laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti. Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a indirizzo neuropsicologico presso l’Istituto S. Chiara di Lecce.

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Dott.ssa Martina Migliore

Psicologa Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Ordine degli Psicologi dell'Umbria n.892

Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, docente e formatrice. Esperta in ACT e Superhero Therapy. Membro dell'Associazione CBT Italia, ACT Italia e SITCC. Esperta nell'applicazione di meccaniche derivanti dal gioco alle strategie terapeutiche evidence based e alla formazione aziendale.