Alessitimia: un vero e proprio analfabetismo emotivo

Chi soffre di alessitimia vive una vita quasi completamente priva di emozioni: quali sono le cause e come superare questa condizione

Dalla paura alla gioia, dalla rabbia alla sorpresa, le emozioni sono una parte fondamentale della nostra vita. Ci sono situazioni però in cui purtroppo abbiamo molte difficoltà nel riconoscerle, sia in noi stessi che negli altri, tanto da diventare incapaci nell’esprimerle. In ambito scientifico una situazione come questa viene chiamata alessitimia, inizialmente definita come una sorta di analfabetismo emotivo.

In questo articolo scopriremo insieme cos’è nel dettaglio l’alessitimia, le sue possibili conseguenze e il modo più indicato per uscire da questa situazione.

Alessitimia: definizione

L’alessitimia, identificata per la prima volta negli anni Cinquanta e ulteriormente analizzata dagli autori John Nemian e Peter Sifneos verso la fine degli anni Settanta, è stata descritta come un insieme di caratteristiche di personalità presenti nei pazienti psicosomatici. Queste persone, affette da malattie correlate alla mente, manifestano una serie di difficoltà nel riconoscere e interpretare le proprie emozioni, associando spesso sensazioni corporee alle esperienze emotive e mostrando una ridotta capacità immaginativa. Pertanto anedonia e alessitimia sono differenti: l’anedonia infatti si concentra sulla mancanza di piacere o gratificazione dalle attività piacevoli.

In termini più semplici, l’alessitimia comporta estrema difficoltà nell’identificare le emozioni, confondere emozioni e sensazioni corporee, e una riduzione della creatività e fantasia. È importante sottolineare che le persone alessitimiche non sono prive di emozioni o incapaci di sperimentarle, ma mostrano una carenza nella comprensione e nell’interpretazione delle stesse. Secondo uno studio condotto da Epifanio e collaboratori, l’alessitimia è associata a un ampio spettro di condizioni cliniche legate al concetto di disregolazione emotiva. Non è considerata un fattore di rischio per specifiche patologie, bensì un deficit nella capacità di regolare e interpretare le emozioni.

ruolo delle emozioni nell'alessitimia

Caratteristiche dell’alessitimia

Nella tabella seguente analizziamo nel dettaglio le caratteristiche dell’alessitimia.

CaratteristicaDescrizione
Difficoltà nell’identificare e comprendere le emozioniLe persone affette da alessitimia hanno difficoltà nel riconoscere e comprendere le proprie emozioni, così come quelle degli altri. Questo può rendere difficile esprimere e gestire i propri sentimenti e complicare le interazioni sociali e le relazioni personali.
Limitata immaginazione e capacità oniricaL’alessitimia è associata a una ridotta o addirittura assente immaginazione e capacità di sognare. Questo può influenzare negativamente la capacità di essere introspettivi e di comprendere sé stessi, limitando la capacità di esplorare e riflettere sui propri pensieri e sentimenti.
Conformità ai comportamenti altruiLe persone con alessitimia possono adottare comportamenti conformi a quelli delle persone intorno a loro, piuttosto che esprimere la propria individualità. Questo può essere dovuto alla difficoltà nel comprendere e comunicare i propri desideri e sentimenti.
Relazioni caratterizzate da dipendenza o isolamentoLe relazioni delle persone con alessitimia possono essere caratterizzate da una dipendenza emotiva, con costante ricerca di attenzione e cure dagli altri. Tuttavia, in assenza di queste relazioni, possono preferire l’isolamento e evitare il contatto sociale.
Stile di attaccamento insicuro-evitanteL’alessitimia è spesso associata a incertezza e uno stile di attaccamento insicuro-evitante, con una forte dipendenza emotiva e un bisogno ossessivo di attenzioni e cure. Questo può rendere difficile formare legami stabili e sani, con difficoltà a fidarsi degli altri per insicurezza e a stabilire relazioni basate sulla reciprocità emotiva.

Le cause dell’analfabetismo emotivo

Le cause dell’alessitimia non sono ancora del tutto chiare, ma spesso sono da ricercare nel rapporto con le figure di riferimento durante il periodo dell’infanzia. In molte circostanze, infatti, questa condizione sembrerebbe una risposta ad un contesto familiare in cui non è presente una relazione affettiva efficace.

Quando questo accade, rischiamo di sviluppare molta difficoltà nel riconoscere i nostri stati emotivi. Parliamo di situazioni come:

  • essere cresciuti in una famiglia in cui c’è poco spazio per l’espressione emotiva:
  • separazione dai genitori;
  • eventi traumatici;
  • carenze affettive.

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Cosa succede nella mente di un alessitimico?

A spiegarci cosa succede nella mente di un alessitimico è uno studio condotto da Cantelmi alla fine del secolo scorso.

Sfere alterateDescrizione
Sfera cognitivaL’alessitimia è caratterizzata da un pensiero concreto, pratico, orientato verso l’esterno e privo di introspezione. Le descrizioni risultano prive di intensità emotiva, desideri, paure e sentimenti, con una comunicazione quasi priva di fantasia e immaginazione, nonostante la ricchezza di particolari.
Sfera affettivaLe persone alessitimiche hanno difficoltà nel valutare e interpretare le emozioni primarie, dando più risalto agli aspetti fisiologici. Ciò può portare alla somatizzazione o a patologie come l’ipocondria.
Interazione con l’ambientePur capaci di instaurare relazioni, le persone alessitimiche possono incontrare difficoltà dovute all’incapacità di riconoscere emozioni, causando frustrazione nelle relazioni di coppia, amicizie o ambito lavorativo. La mancanza di scambio emotivo e comunicazione efficace può portare a continui fraintendimenti.
Espressività corporeaLe persone alessitimiche mostrano rigidità fisica e mancano delle espressioni facciali legate alle emozioni. Non riescono ad entrare in contatto con la propria interiorità.

Disturbi fisici e psicologici legati a questa condizione

Come sottolinea un articolo scientifico di Graeme e collaboratori, l’alessitimia è significativamente correlata a numerose condizioni patologiche. Possono essere malattie di natura piscosomatica e piscologica, e per questo motivo tali persone sono più propense a soffrire di dipendenze o di un disturbo d’ansia.

Non sono da escludere disturbi alimentari, la depressione e il disturbo post traumatico da stress. In più, l’alessitimia è riscontrabile anche nei disturbi di personalità. Un esempio di tutto questo è uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Psychology & Psychotherapy in cui è stato evidenziata una correlazione con il disturbo narcisistico di personalità e nelle persone con la sindrome di Asperger.

trattamento dell'alessitimia

Cura e trattamento

Soffrire di alessitimia non permette di vivere a pieno e con serenità la propria vita e, contemporaneamente, genera frustrazione in chi ci vuole bene. Per questo motivo, è essenziali affidarsi alle mani di un esperto della salute mentale che ci possa dare supporto emotivo. Attualmente, il trattamento più efficace sembrerebbe essere una psicoterapia a orientamento cognitivo-comportamentale grazie a cui il terapeuta ci aiuta a esprimere, riconoscere e gestire le nostre emozioni.

Se stai pensando di iniziare un percorso di psicoterapia, i professionisti di Serenis ti possono aiutare. Selezioneremo uno psicologo online adatto alle tue esigenze, ti basterà compilare il questionario sul nostro sito. Questa potrebbe essere un’opportunità per imparare a comprendere meglio noi stessi e gli altri, migliorando la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni.

Fonti:

  • Nemiah J.C., Freyberger H., Sifneos P.E. (1976), Alexithymia: A view of the psychosomatic process. In Hill O.W., Modern Trends in Psychosomatic Medicine, Vol. 3, Butterworths, London, pp. 430-439.
  • Epifanio M.S., La Grutta S., Roccella M., Lo Baido R., (2014). L’alessitimia come disturbo della regolazione affettiva. Minerva Psichiatrica; 55:193-205.
  • Cantelmi T., Sarto A.(1999). Alexitimia. Gli analfabeti delle emozioni. Psicologia Contemporanea; 154:40-8.
  • Graeme J. Taylor, Michael Bagby and James D.A. Parker, Disorders of Affect Regulation: Alexithymia in Medical and Psychiatric Illness, 1997, pp. 28-31.
  • Dimaggio, G., Procacci, M., Nicolò, G., Popolo, R., Semerari, A., Carcione, A., & Lysaker, P. H. (2007). Poor metacognition in narcissistic and avoidant personality disorders: Four psychotherapy patients analysed using the Metacognition Assessment Scale. Clinical psychology & psychotherapy, 14(5), 386-401.

Disgusto, un’emozione di base che può trasformarsi in psicopatologia

Tra le emozioni di base dell’essere umano c’è il disgusto che può essere un salvavita ma anche il segnale di una psicopatologia

Il disgusto, seppur presentandosi con un’accezione negativa, fa parte delle cosiddette emozioni primarie, quindi quelle emozioni di base che sono necessarie per la sopravvivenza dell’uomo.

Esso, infatti, serve per proteggerci dal contatto con stimoli che riteniamo potenzialmente dannosi o contaminanti, che percepiamo come pericoli per il nostro corpo e/o per la mente.

Tuttavia, in alcune condizioni può rivelarsi anche il sintomo di una psicopatologia.

In questo articolo scopriremo insieme il ruolo del disgusto nella nostra vita e cosa occorre fare quando rischia di trasformarsi in qualcosa che mina il nostro benessere psicologico.

Cos’è il disgusto

C’è poco da dire e da girarci intorno: il disgusto è una sensazione spiacevole che abbiamo provato (e che proveremo) tutti. Si tratta di un sentimento di repulsione che può scattare in tantissime circostanze, come quando assaggiamo un cibo che proprio non ci piace o quando vediamo un ex nello stesso edificio in cui siamo noi.

È un’emozione che iniziamo a provare sin da quando siamo piccolissimi. In principio si presenta quando i bambini rifiutano specifici sapori e odori, mentre con il passare del tempo si ritrova a far parte di tutto ciò che per noi è ripugnante e sporco, compresi i valori, i pensieri, le persone e persino noi stessi, come sottolinea uno studio scientifico di Rozin e Fallon.

Le diverse tipologie di disgusto

Gli studi in ambito scientifico in fatto di disgusto hanno identificato diverse tipologie di questa emozione primaria. Nel descrivervele facciamo riferimento a una classificazione stilata da Rozin e collaboratori nel 1986:

  • core disgust: quello che emerge per colpa degli alimenti, animali e prodotti corporei. Il suo scopo è proteggerci dalla contaminazione;
  • animal reminder disgust: un rifiuto che riguarda anche il tatto e la vista e che scatta a causa di oggetti appartenenti ai domini dell’igiene, della morte e della violazione del corpo, quindi ferite, sangue e simili;
  • interpersonal disgust: il disgusto interpersonale, quindi il contatto diretto o indiretto con persone che si ritengono sgradevoli;
  • moral disgust: il disgusto morale, vale a dire la repulsione per gli eventi che riteniamo moralmente disgustosi. Va specificato che però risentono fortemente anche delle influenze culturali di ogni popolo.

Come si manifesta

Il disgusto è considerato un’emozione primaria anche perché prevede una specifica reazione corporea. L’espressione facciale che emerge quando siamo di fronte a qualcosa che ci genera quella sensazione che più comunemente viene chiama schifo, è nota a tutti: arricciamo il naso e solleviamo il labbro.

Se particolarmente intenso, come si può leggere in un libro di Ekman e Friesen, ci ritroviamo con le palpebre inferiori sollevate e le sopracciglia abbassate.

Va sottolineato che il rialzo del labbro superiore caratterizza anche la manifestazione di un’altra emozione primaria: la rabbia. Le due emozioni, infatti, sembrerebbero accomunate dall’aspetto morale.

I comportamenti che mettiamo in atto, invece, hanno l’obiettivo di allontanarci da ciò che scatena in noi il disgusto, e quindi ci tappiamo il naso, chiudiamo gli occhi, ce ne andiamo da una stanza e così via.

Dal punto di vista fisiologico, in noi potrebbe scattare la nausea. Il disgusto, infatti, è l’unica emozione primaria che ha una specifica attivazione fisiologica, definita persino viscerale.

Disgusto e psicopatologie

Il disgusto fa parte della nostra vita e nella maggior parte delle circostanze ci serve perché ci protegge da un qualcosa che percepiamo come potenzialmente pericoloso. Ciò non toglie che, purtroppo, è anche associato a diversi disturbi psicopatologici:

In particolare l’emozione di disgusto, come riporta un articolo di Olatunji e Sawchuk, sembrerebbe essere alla base del timore di contaminazione che caratterizza il disturbo ossessivo-compulsivo: in molte circostanze i sintomi di questo malessere si strutturano attorno sull’idea di potersi sporcare e diventare, di conseguenza, disgustosi.

Il disturbo ossessivo-compulsivo

A giocare un ruolo fondamentale tra disturbo ossessivo-compulsivo e disgusto è la contaminazione, che Rachman nel 2004 ha definito come la forte e persistente sensazione di essere stati contagiati, infettati, o messi in pericolo dal contatto con una persona, luogo, oggetto sporchi, impuri, infetti o nocivi.

Diversi studi, come quello di Olatunji e collaboratori, hanno messo in luce che la propensione al disgusto e i sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo da contaminazione hanno una correlazione altamente significativa.

Non sorprende, infatti, che queste persone possano sentirsi responsabili per la prevenzione della contaminazione, e in quanto tali si sentono anche in dovere di liberarsi dallo stimolo che ritengono contaminato e disgustoso.

Strategie per gestire il disgusto

Non possiamo fare a meno del disgusto, ma ciò non toglie che possiamo imparare a gestirlo. Certo, se un cibo non ci piace è meglio non mangiarlo perché rischiamo di sentirci male, ma nelle relazioni con gli altri possiamo sicuramente imparare a controllare le nostre reazioni, e quindi l’emozione stessa.

Possiamo scegliere di evitare una determinata persona, per esempio, oppure possiamo fare un tentativo diverso: provare ad avere con lei un dialogo costruttivo. Ciò significa che ci impegniamo a spiegare il nostro punto di vista, sottolineando anche come ci fanno sentire le azioni che riteniamo disgustose.

Se anche questa piccola strategia non porta ai risultati sperati, dobbiamo cercare di renderci conto che la sensazione di disgusto non dipende necessariamente dalla situazione in cui ci troviamo, ma dal significato che gli diamo noi. In poche parole, dobbiamo cercare di guardare il tutto da una prospettiva diversa.

Un’altra strategia che potrebbe rivelarsi vincente è la soppressione perché ci permette di annullare il disgusto sul nascere. Infine, da non dimenticare è che, soprattutto nelle condizioni più complesse, come quella del disturbo ossessivo-compulsivo, è importante rivolgersi agli esperti della salute mentale: sono dei professionisti che possiedono metodi e strumenti che ci aiutano a gestire la versione patologica di questa importante emozione.

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Fonti

  • Rozin, P., Millman, L., Fallon, A. E. (1986). Operation of the law of sympathetic magic in disgust and other domains. Journal of Personality and Social Psychology 50 (4), 703-712.
  • Ekman, P. and Friesen, W. V. (2007). Giù la Maschera. Come riconoscere le emozioni dall’espressione del viso. Firenze, Giunti Editore.
  • Olatunji, B. O., & Sawchuk, C. N. (2005). Disgust: Characteristic features, social manifestations, and clinical implications. Journal of Social and Clinical Psychology, 24(7), 932-962.
  • Rachman, S. (2004). Fear of contamination. Behaviour research and therapy, 42(11), 1227-1255.
  • Olatunji e D. McKay (Eds.), Disgust and its disorders: Theory, assessment and treatment implications (pp. 123–143). American Psychological Association.

La speranza e il suo ruolo fondamentale nella nostra vita

Per vivere felici occorre avere sempre speranza: perché è così fondamentale e cosa fare quando si perde completamente

“Finche c’è vita c’è speranza”, recita un proverbio che deriva da un’opera di Gabriele d’Annunzio. Ma dal punto di vista psicologico queste poche parole dovrebbero essere trasformate in: “Finché c’è vita ci deve essere speranza“.

Questa attesa fiduciosa di un evento positivo, infatti, è essenziale per la nostra sopravvivenza. È un sentimento fondamentale per affrontare tutte le possibili avversità, un qualcosa che occorre coltivare anche quando abbiamo la sensazione di non farcela.

In questo articolo approfondiremo il concetto di speranza, cercando di capire insieme l’importante ruolo che gioca nella nostra vita e cosa fare quando si pensa di non averla più.

Cos’è esattamente la speranza

Dal punto di vista psicologico la speranza è un sentimento che rappresenta la nostra capacità di affrontare una situazione, avendo fiducia nelle abilità che possediamo per trovare una soluzione.

Si tratta perciò di un sopporto fondamentale per la nostra motivazione, perché senza di essa diventa difficile per noi poter cambiare e migliorare, soprattutto in situazioni che si presentano come particolarmente complesse.

Come nasce la speranza

La speranza non è del tutto innata, perché nei fatti ci contagia. Sono i nostri genitori che da piccoli, con il loro atteggiamento positivo, ci trasmettono fiducia nelle nostre capacità per avere un futuro brillante e per saper affrontare le avversità che, inevitabilmente, incontreremo lungo il nostro cammino.

È quindi il loro atteggiamento di speranza nei confronti della vita ad “insinuarsi” dentro di noi. Tuttavia, siamo proprio noi stessi, nel corso del tempo, a dover coltivare questo fondamentale sentimento che ci aiuta a superare gli eventi avversi.

La sua fondamentale importanza

Per gli studiosi approfondire il concetto di speranza non è facile perché è complesso collocarla nel mondo delle emozioni. Secondo alcuni ricercatori, non può essere definita come tale perché manca di attivazione neurofisiologica in quanto non scatena in noi delle forti reazioni fisiche, come invece fanno le emozioni primarie (vi basti pensare alla paura).

Ciò non toglie che Karl Menninger, uno degli psichiatri più influenti d’America nel secondo dopoguerra, la definì come un’attesa positiva, la fiducia in un buon risultato che, in fatto di successo, può fare la differenza.

Erik Erikson, psicologo e psicoanalista tedesco, sottolineò che la speranza è la più importante qualità che accompagna la spinta evolutiva di ogni bambino alla ricerca di una esperienza positiva.

C’è poi il punto di vista di Erich Fromm, psicanalista e sociologo tedesco, che nei suoi studi evidenziò come la mancanza di speranza porta a sperimentare paura, isolamento, indifferenza e molto altro ancora. Secondo lui, infatti, la speranza è una forza importantissima non solo per l’ideazione e il raggiungimento degli obiettivi, ma anche per la possibilità di attuare le giuste azioni.

La teoria della speranza

Charles Richard Snyder, uno dei massimi esponenti della psicologia positiva, formulò la teoria della speranza. Egli fece un esperimento grazie a cui dimostrò che le persone che ottenevano alti punteggi in un test sulla speranza, erano in grado di tollerare meglio una dura prova che veniva loro proposta dopo aver completato il quiz.

Grazie a questi risultati capì che la speranza è una sorta di interruttore per i nostri comportamenti, tanto da individuarne due componenti:

  • agentività: la convinzione di poter conquistare gli obiettivi;
  • percorsi: la certezza di poter mettere a punto dei piani utili a raggiungere determinati scopi.

Secondo lo studioso, quindi, la speranza non è una predisposizione, ma il frutto della nostra coltivazione: per averla nella nostra vita deve essere coccolata, nutrita e protetta.

Cosa alimenta la speranza

A spiegarci cosa alimenta la speranza è uno studio condotto da Johnson su un gruppo di persone malate di tumore. Una condizione che, a detta di molti, potrebbe essere priva di questa importante spinta emozionale.

Ciò che è emerso è che la speranza è composta di 10 attributi fondamentali:

  • aspettative positive: una previsione che ci spinge a sperare in un domani migliore, nonostante la malattia;
  • qualità personali: si tratta di una sorta di forza interiore, un approccio alla vita che ci spinge a risolvere i problemi;
  • spiritualità: la fede verso un un qualcosa di superiore che veglia su di noi, la fiducia che ci sia una vita dopo la morte dove rincontrare i propri cari;
  • obiettivi: fissare e raggiungere obiettivi a breve termine;
  • confort: non provare più dolore;
  • assistenza: l’aiuto da parte degli altri;
  • relazioni interpersonali: nonostante la malattia, è fondamentale mantenere relazioni con gli altri ricche di affetto, anche con coloro che danno assistenza;
  • controllo: possibilità di decidere sulle proprie cure;
  • eredità: lasciare qualcosa di valore agli altri;
  • rassegna della propria vita: riconoscere gli obiettivi raggiunti e e cosa si è fatto durante il proprio percorso di vita.

Al contrario, ciò che non alimenta la speranza è:

  • abbandono e isolamento: vale sia per i famigliare e gli amici che da parte degli operatori;
  • dolore: che diventa incontrollabile;
  • svalutazione: della propria personalità e della propria persona.

Cosa succede se non speriamo

La speranza ci aiuta a vivere e, contemporaneamente, ci fornisce i mezzi per adattarci a una malattia, ci suggerisce come ridurre lo stress e ci dona alcuni strumenti utili a migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita in generale.

La mancanza di speranza, ovvero quando pensiamo che una brutta situazione sia insuperabile e che quindi tutti gli obiettivi che ci siamo posti siano irraggiungibili, è associata alla depressione e al desiderio di morire il prima possibile.

In sostanza siamo disperati, ovvero ci riteniamo incapaci di affrontare l’incertezza del futuro. In poche parole siamo privi di fiducia in noi stessi e che non vediamo le possibilità per cui una situazione possa risolversi in maniera positiva grazie alle nostre capacità o al supporto di chi ci vuole bene (anche delle istituzioni, in alcuni casi).

Si tratta di un sentimento che non bisogna sottovalutare per nessuna ragione al mondo perché le conseguenze possono essere terribili: la disperazione può spingerci a fare scelte autodistruttive.

Come ritrovare la speranza

Ve lo abbiamo detto all’inizio di questo articolo: “Finché c’è vita ci deve essere speranza”, e la buona notizia è che può davvero essere così. Se ci si sente disperati e non si ha più speranza, il regalo migliore che possiamo fare a noi stessi è quello di affidarci a una terapia psicologica che prevede l’uso di strategie e strumenti per tornare ad abbracciare la vita ed il futuro.

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Fonti

  • Menninger, K. Hope. Pastoral Psychol 11, 11–24 (1960). https://doi.org/10.1007/BF01759243.
  • Erikson, E. H. (1950). Childhood and society. New York: Norton.
  • Erik Fromm, La rivoluzione della Speranza, Etas: Universale 1979.
  • Snyder, C. (2002) Hope Theory: Rainbows in the Mind. Psychological Inquiry, Volume 13, Issue 4, 2002.

Il ruolo dell’incertezza nella nostra vita e come controllarla

L’incertezza fa parte della vita di tutti noi ma, purtroppo, può sfociare in qualcosa di psicopatologico: ecco come affrontarla

In tantissime persone l’incertezza genera delle emozioni negative. In altre, invece, appare come stimolante.

Ci sono moltissime altre situazioni in cui questo nostro stato psicologico può arrivare ad essere insopportabile, portando a una serie di problematiche che è molto importante affrontare.

In questo articolo approfondiremo insieme il concetto di incertezza e, soprattutto, cercheremo di capire cosa è importante fare quando questa condizione psicologica genera in noi ansia e frustrazione.

Cos’è esattamente l’incertezza

In diverse situazioni della vita di tutti i giorni ci è praticamente impossibile stabilire e sapere a priori come andranno determinate cose.

Quando ci troviamo di fronte a circostanze come queste, entriamo in uno stato di incertezza, una sensazione che può generare in noi sentimenti e atteggiamenti controproducenti e che può spingerci a cercare conferme su quel che pensiamo (o temiamo).

La verità è che non possiamo scappare dall’incertezza: fa parte della vita di ognuno di noi perché la natura degli eventi è imprecisa e per questo nascono dubbi e perplessità.

Ciò non toglie che, quando compare l’incertezza, abbiamo molte più difficoltà a fare delle scelte e a prendere decisioni, oppure può rappresentare uno stimolo per mettersi alla prova e conoscersi meglio.

Tutto questo per dire che, per fortuna, non è sempre detto che l’incertezza sia negativa. Tuttavia, ci sono delle circostanze in cui ci porta persino a sperimentare la paura per ciò che non conosciamo, rispondendo a questo timore con strategie che possono rivelarsi disfunzionali per la nostra crescita e il benessere psicologico di ognuno di noi.

Dal punto di vista della psicologia, infatti, l’incertezza equivale ad avere paura dell’ignoto, tanto da essere definita “intolleranza all’incertezza”.

L’intolleranza all’incertezza

I primi a parlare di intolleranza all’incertezza sono stati alcuni ricercatori canadesi negli anni ’90 del secolo scorso.

Ancor più recentemente, essa è stata definita da Carleton e collaboratori come “l’incapacità, di natura disposizionale, di sopportare le reazioni avversive scatenate dalla non presenza percepita di informazioni salienti, essenziali o sufficienti, sostenuta dall’associata percezione di incertezza”

In sostanza, l’incertezza emerge quando temiamo ciò che non conosciamo, e per questo ci sono situazioni in cui mettiamo in atto dei comportamenti che hanno l’obiettivo di predire e controllare le conseguenze di una determinato evento.

Lo scopo che ci poniamo è quello di evitare, o di rendere minimi, i possibili effetti negativi di quella determinata situazione.

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Quali sono le cause

Non esistono delle vere e proprie cause dell’incertezza. Ci sono delle situazioni particolari della vita che possono metterci di fronte a questa sensazione. Una di queste è la contraddizione tra le aspettative che abbiamo e i segnali che ci arrivano dall’ambiente circostante.

È il caso, per esempio, di quando siamo in attesa dell’esito di un colloquio di lavoro: abbiamo la sensazione che sia andato molto bene, eppure i giorni passano e nessuno si fa sentire per farci sapere se sia andato a buon fine oppure no.

Questa condizione ci porta a pensare che sia stato scelto un altro candidato al posto nostro. Per tale motivo, la certezza che avevamo al termine del colloquio va a scontrarsi con la sensazione negativa che sembra svilupparsi intorno a noi. Il risultato è il crescere e il radicarsi dello stato di incertezza.

Un’altra fonte di questa condizione è la contrapposizione tra il comportamento e i valori. Ciò vuol dire che quando facciamo delle cose che non corrispondono ai nostri valori (attenzione, capita a tutti!) l’incertezza aumenta.

Il terzo e ultimo fattore è l’ingiustizia sociale. Ognuno di noi, chi più e chi meno, può ritrovarsi a essere vittima di una qualche ingiustizia che genera in noi una forte incertezza perché magari non possiamo risolverla. Viviamo un senso di impotenza, quindi, che ci fa dubitare della nostra capacità di controllare il futuro.

Le conseguenze psicologiche dell’intolleranza all’incertezza

La prima cosa che bisogna sapere è che le conseguenze psicologiche dell’incertezza non sono le stesse per tutti. Ma in alcune persone, come si può leggere su uno studio di Carleton e collaboratori, l’intolleranza all’incertezza si trova alla base di alcuni disturbi d’ansia e del perfezionismo patologico.

Studi più recenti, come quello condotto da McEvoy e Erceg-Hurn, invece, hanno dimostrato che gioca un ruolo di mantenimento e di sviluppo di altri disturbi psicologici come:

Bottesi e collaboratori hanno invece dimostrato che l’intolleranza all’incertezza tiene vivi comportamenti impulsivi disfunzionali che si possono ritrovare nel disturbo borderline di personalità e nelle dipendenze da sostanze.

Senza dimenticare che sono connesse anche incertezza e salute perché non si può mai essere certi di essa, sia per noi stessi che per gli altri.

Su questo argomento una recente meta-analisi di Kuang e Wilson ha evidenziato che l’incertezza nella malattia è positivamente associata alla presenza di molta ansia e a comportamenti volti al non sapere le diagnosi.

Come gestire l’incertezza

Per non ritrovarci a vivere gli effetti negativi dell’incertezza dovremmo imparare a gestirla, perché la vita di tutti noi può cambiare rapidamente e in modo imprevedibile.

Una delle strategie che si può rivelare vincente è quella di concentrarsi su come agire sugli aspetti che abbiamo sotto controllo, e non su quelli che ci sono ignoti. Ciò vuol dire che se rimaniamo disoccupati, per esempio, dobbiamo investire le nostre energie sulla ricerca di un’altra occupazione.

È anche opportuno non negare la presenza di emozioni negative perché provare a reprimerle rischia di far aumentare lo stress e l’ansia. Dobbiamo quindi accettare l’incertezza, ovvero dobbiamo comprenderne le cause e concentrarci sul momento presente.

Un’altra buona strategia è quella di fare cose che aiutano a ridurre lo stress generale e i livelli di ansia. Ciò vuol dire che è ottimo l’esercizio fisico, oppure sottoporsi a un trattamento naturale ed efficace per alleviare la frustrazione che percepiamo.

Infine, il passo fondamentale: rivolgersi a un professionista delle salute mentale. Uno dei compiti principali della psicologia, infatti, è quello di aiutare le persone ad imparare a gestire e tollerare l’incertezza.

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Fonti

  • Dugas M. J., Gagnon F., Ladoceur R. e Freeston M. H. (1998). Generalized anxiety disorder: a preliminary test of a conceptual model. Behaviour Research and Therapy, 36, 215-226.
  • Carleton R. N. (2016) Into the unknown: A review and synthesis of contemporary models involving uncertainty. Journal of Anxiety Disorders, 39, 30-43.
  • Carleton R. N., Norton M. A. P. J. e Asmundson G. J. G. (2007) Fearing the unknown: A short version of the Intolerance of Uncertainty Scale. Journal of Anxiety Disorders, 21, 105–117.
  • McEvoy P. M., Erceg-Hurn D. M. (2016) The search for universal transdiagnostic and trans-therapy change processes: Evidence for intolerance of uncertainty. Journal of Anxiety Disorders, 41, 96–107.
  • Bottesi G., Tesini V., Cerea S. e Ghisi M. (2018) Are Difficulties in Emotion Regulation and Intolerance of Uncertainty related to negative affect in Borderline Personality Disorder? Clinical Psychologist, 22,137-147.
  • Kuang, K. e Wilson S. R. (2017) A meta-analysis of uncertainty and information management in illness contexts. Journal of Communication, 67, 378-401.

Quali sono le emozioni primarie e quale ruolo hanno nella nostra vita

Tutti possediamo le emozioni primarie, sono innate ed essenziali per la sopravvivenza: quali sono e come influiscono sulla nostra vita

Per fortuna che esistono le emozioni: senza di esse, probabilmente, la nostra vita sarebbe piatta e priva di senso.

Come tutti sappiamo, però, non sempre sono positive e per questo motivo bisogna saperle coltivare nella giusta maniera.

Il mondo delle emozioni è vastissimo, tuttavia possono essere generalmente suddivise in emozioni primarie e secondarie.

In questo articolo ci concentreremo sulle emozioni primarie individuando insieme quali sono e quale ruolo hanno nella nostra vita.

Cosa sono le emozioni primarie

Qualsiasi emozione, sia primaria che secondaria, consiste in una modificazione che avviene nel nostro corpo sia a livello fisiologico che emotivo. Le emozioni primarie, in particolare, sono dette anche fondamentali perché sono innate, presenti in qualsiasi popolazione che intende sopravvivere, che ha relazioni con il prossimo e che desidera portare a termine le azioni che intraprende.

In sostanza le emozioni primarie sono comuni nell’uomo e negli animali superiori perché sono dei processi psicofisiologici che sono indispensabili alla regolazione biologica interna del nostro organismo, alla segnalazione interiore di quanto avviene intorno a noi, per l’attivazione di comportamenti utili al contesto in cui ci troviamo e molto altro ancora.

Quali sono le emozioni primarie

Negli anni ’60 Paul Ekman, sostenitore delle teorie evoluzionistiche, con i suoi collaboratori fece una serie di ricerche sull’espressione ed identificazione delle emozioni tra diverse popolazioni del mondo.

In particolare vogliamo riportarvi uno studio scientifico condotto su persone appartenenti alle culture dei Fore, in Nuova Guinea, e dei Dani, in Indonesia, che hanno la caratteristica di essere socialmente e culturalmente isolati dal resto del mondo.

I risultati di questa ricerca dimostrarono che, pur essendo popoli lontanissimi tra loro, con una cultura completamente diversa e che non erano mai stati in contatto nemmeno per mezzo di tv e giornali, manifestavano le stesse espressioni facciali di chi apparteneva a culture occidentali, sudamericane ed orientali.

Le sette emozioni primarie

Dagli esiti degli esprimenti condotti dai ricercatori sono state identificate le 7 emozioni primarie, e quindi di base:

  1. Rabbia

E’ una reazione alla frustrazione e può manifestarsi in diversi modi, tra cui l’aggressività.

  1. Paura

La risposta a un qualcosa che percepiamo come pericolosa. Essa è dominata dall’istinto che ha come obiettivo la nostra sopravvivenza.

  1. Tristezza

Nasce in seguito alla perdita di qualcuno o qualcosa, perché non abbiamo raggiunto uno scopo che ci eravamo prefissati e molto altro ancora.

  1. Gioia

Qualcosa di positivo, finalmente, che ci porta ad essere soddisfatti e che ha su di noi un potere travolgente.

  1. Sorpresa

Il brivido che proviamo quando siamo di fronte a qualcosa di inaspettato, e per questo può essere seguito da paura o gioia.

  1. Disprezzo

Quando non abbiamo un briciolo di stima nei confronti di qualcosa e/o qualcuno, tanto che tendiamo a rifiutarla perché la consideriamo priva di dignità morale e/o intellettuale.

  1. Disgusto

Si esprime attraverso un’espressione facciale specifica.

Che ruolo hanno nella nostra vita

Le emozioni sono essenziali e per questo ricoprono tantissimi ruoli diversi nella vita di ognuno di noi. Sperimentiamo determinate sensazioni perché abbiamo bisogno che il nostro organismo si adatti alla situazione che stiamo vivendo, e quindi ci servono per prepararci all’azione.

Le emozioni primarie hanno anche una funzione sociale e interpersonale e in più influiscono sulla nostra attività cognitiva, per cui quella della mente, perché orientano le nostre scelte.

Sono perciò strumenti essenziali per mediare fra situazioni che cambiano continuamente e che ci fanno attivare – in diversi casi – le più opportune risposte comportamentali, o comunque quelle che riteniamo utili.

Le emozioni primarie si rivelano anche dei potenti mezzi di comunicazione sia interni che esterni alla nostra persona. Un esempio di tutto ciò è la paura, emozione che ci comunica che qualcosa sta accadendo.

Quando scatta, quindi, ci irrigidiamo e magari scappiamo da quella precisa situazione. Contemporaneamente l’ambiente esterno percepisce la nostra paura, si allarma e si prepara all’azione.

Le emozioni comunicano agli altri (e li influenzano), anche tramite le espressioni facciali molto più velocemente rispetto all’uso delle parole. In più, comunicano anche con noi stessi perché le nostre reazioni emotive possono informarci su una situazione e/o allarmarci perché magari sta succedendo qualcosa.

Le emozioni secondarie

Non si può parlare di emozioni primarie senza fare riferimento alle secondarie. Queste ultime, infatti, sono il risultato di una mescolanza delle prime.

Ciò vuol dire che sono emozioni più complesse perché vengono condizionate e plasmate dall’esperienza. Degli esempi di emozioni secondarie sono la vergogna, il senso di colpa, il rimorso e l’invidia.

Antonio Damasio, neurologo, neuroscienziato, psicologo e saggista portoghese, sostiene che le emozioni secondarie emergono in noi quando iniziamo a provare dei sentimenti perché creiamo delle connessioni tra categorie di oggetti e situazioni, da un lato, ed emozioni primarie dall’altro.

Per fare un esempio pratico della definizione data dall’esperto, la gioia è un’emozione primaria, mentre l’euforia è secondaria perché appartiene alla gamma di emozioni che nascono dalla felicità stessa.

Controllare le emozioni primarie

Gli esperti di IPSICO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva, sottolineano che possono attivarsi delle situazioni in cui trattiamo le emozioni come se fossero fatti del mondo: più forte è l’emozione, più forte è la convinzione che la nostra emozione è basata su un fatto reale; “se mi sento insicuro, sono incompetente”.

Quando questo accade rischiamo di fare terribili errori perché se riteniamo che le nostre emozioni rappresentino la realtà, possiamo non interpretarla nella giusta maniera perché prendiamo in considerazione esclusivamente l’informazione emotiva.

Ciò vuol dire che rischiamo di generare pensieri catastrofici o terrifici in quanto diamo più importanza alle emozioni primarie che alla realtà. Molto persone che presentano queste difficoltà, infatti, hanno bisogno di aiuto per gestire la loro emotività.

A incidere sulla gestione delle emozioni primarie e delle conseguenti secondarie possono essere fattori biologici come le disfunzioni ormonali, la mancanza di un modello perché nessuno ha mai insegnato a questa persone come regolarle, e l’ambiente circostante.

Da non dimenticare, infine, è che le emozioni sono da tempo al centro dell’interesse degli studiosi perché hanno un importante ruolo nel mantenimento dei disturbi psichiatrici. Scopri inoltre come funziona il blocco emotivo e quando avviene.

La psicoterapia online di Serenis

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Fonti

  • Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione.
  • Antonio R. Damasio. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, ed. Adelphi, 1995.
  • IPSICO, Le emozioni umane.

Quando le emozioni prendono il sopravvento: la disregolazione emotiva

Esploriamo la disregolazione emotiva: quando le emozioni prendono il sopravvento. Scopri le cause, gli effetti e le strategie per affrontare questa sfida quotidiana

Ci sono situazioni in cui è davvero difficile riuscire a mantenere salde le proprie emozioni, belle o brutte che siano. Per esempio (se ami i cani, salta la prossima riga) chi non ha pianto dopo aver visto Hachiko per dieci lunghi anni aspettare il ritorno del padrone?

Se invece non si riescono a gestire le emozioni durante situazioni di vita quotidiana, allora potrebbe esserci un problema. 

L’incapacità di controllare le proprie emozioni e di comportarsi in modo adeguato alla situazione si chiama “disregolazione emotiva”.

Se ti va, approfondiamo insieme.

Regolazione emotiva: quando impariamo

Durante il primo anno di vita, la regolazione emotiva si basa sulla relazione tra genitore e figlio.

I bambini e le bambine già a due mesi sono in grado di differenziare e imitare le espressioni facciali prodotte dagli adulti: in particolare regolano la propria risposta emotiva sulla base delle espressioni emozionali dei genitori.

Per sviluppare tutte queste competenze è però necessario avere accanto un adulto sensibile e responsivo, capace di interpretare i segnali del bambino o della bambina e di insegnare a regolare le emozioni.

Quali sono le cause della disregolazione emotiva?

La disregolazione emotiva può essere la conseguenza di una relazione che non si basa sull’accudimento e sul supporto. Se il genitore non riesce a rispondere alle richieste di cura e di attenzione, la bambina o il bambino può provare sensazioni di rabbia e di rifiuto. Più nello specifico, può sviluppare uno di questi tre modelli di attaccamento:

  • disorganizzato. Il bambino ricerca e contemporaneamente allontana il proprio genitore e sembra assente e confuso;
  • evitante. Il bambino apparentemente non ha alcuna reazione emotiva se allontanato dal proprio genitore;
  • ambivalente. Il bambino allontanato dal proprio genitore mostra, dopo il suo ritorno, rabbia e difficoltà a calmarsi.

Questi comportamenti avranno un impatto sulle relazioni presenti e future del bambino, che non si sentirà in grado di regolare i propri stati interni negativi.  

Proverà spesso rabbia e tristezza, e una volta adulto potrebbe sviluppare un deficit nel regolare le emozioni che, a sua volta, alimenterà il senso di sfiducia.

La finestra di tolleranza: quando una reazione è esagerata?

Questo concetto è stato introdotto dallo psichiatra statunitense Daniel Siegel.
Durante la giornata, ogni volta che dobbiamo affrontare degli stimoli, ci muoviamo all’interno di una “finestra” che prevede due risposte neurofisiologiche: 

  • iper-attivazione, se reagiamo alle situazioni più stimolanti;
  • ipo-attivazione, se rispondiamo a quelle più calme.

Fintanto che siamo all’interno della finestra, le nostre risposte sono adeguate agli stimoli: significa che abbiamo una buona regolazione emotiva.

Se invece superiamo la soglia dell’iper-attivazione o stiamo sotto a quella dell’ipo-attivazione, abbiamo una disregolazione emotiva, che può portarci a percepire perdita del controllo, agitazione, ansia, apatia o prostrazione.

In altre parole, la  disregolazione emotiva è l’incapacità di dare risposte neurofisiologiche che si collocano all’interno della finestra di tolleranza emotiva.

La dimensione della finestra non è uguale per chiunque: ognuno ha la sua. Chi ne ha una troppo stretta può avere la sensazione che le emozioni siano intense e difficili da gestire.
La finestra di tolleranza viene influenzata in parte dall’ambiente in cui si vive: in un ambiente sicuro e protetto è più facile regolare le emozioni.

Con il nostro test sull’alessitimia puoi scoprire il tuo livello di comprensione delle emozioni.

Trauma e disregolazione emotiva

Chi ha subito un trauma può avere difficoltà a regolare le emozioni, perché la sua finestra di tolleranza sarà piuttosto ristretta: percepirà il mondo esterno come una minaccia e tenderà ad adottare meccanismi di difesa poco sani e disfunzionali. Ad esempio:

  • una persona che spesso è in uno stato di iper-attivazione potrà sviluppare sintomi di stress post-traumatico, come flashback, incubi e derealizzazione;
  • una persona che è in uno stato di ipo-attivazione potrà avere problemi di memoria e fenomeni dissociativi.

Difficoltà della disregolazione raccontate in terapia

Spesso, durante gli incontri, mi capita di trovarmi di fronte a persone che si interrogano sulle proprie reazioni emotive rispetto ad alcune situazioni che hanno vissuto.

Nonostante i pazienti riconoscano che quelle situazioni siano la fonte del loro malessere, non riescono comunque a trovare un equilibrio: fanno fatica anche solo a parlarne.

Il loro comportamento disfunzionale, pericoloso e spesso sulla difensiva non è altro che un tentativo per allontanare la rabbia, la tristezza e la paura.

Conclusioni

Per raggiungere i nostri obiettivi, primo fra tutti quello di avere una vita psicofisica equilibrata e serena, è importante gestire le nostre risposte emotive in modo adeguato alle situazioni. 

Finalmente abbiamo compreso l’importanza di saper rispondere adeguatamente alle situazioni che viviamo regolando le emozioni, anche quelle più forti. Quindi non sentirti in difetto se hai pianto dopo Hachiko (è una reazione del tutto comune).

Se invece avverti di non reagire mai come vorresti perché ti lasci sopraffare dalle emozioni: non vergognarti, puoi sempre contare sull’aiuto di una o uno psicoterapeuta.

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Bibliografia e sitografia

State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche; Disregolazione Emotiva;

La Comunicazione Affettiva tra il bambino e i suoi partner, a cura di Cristina Riva Crugnola, Ed. Cortina