Cattive notizie, infodemia e doomscrolling: l’intervista a Francesco Oggiano

Scopri l’intervista esclusiva a Francesco Oggiano sull’impatto delle cattive notizie, dell’infodemia e del doomscrolling sulla nostra salute mentale e come affrontarli.

Per la nostra newsletter Filo (a proposito, se non te la vuoi perdere ti puoi iscrivere qui) abbiamo intervistato Francesco Oggiano sul tema delle “Cattive notizie”. Abbiamo parlato di doomscrolling e infodemia, ma anche di responsabilità dei giornalisti – ecco perché ne abbiamo intervistato uno.

«Come giornalista sei particolarmente esposto alle cattive notizie. Ti è mai successo di avere una reazione di rigetto? Di smettere di informarti per poterne sostenere il peso?»

La risposta di Francesco Oggiano: “Forse solo una volta ho avuto una piccola reazione di rigetto. È stato, non ricordo precisamente, tra marzo e aprile 2020. Iniziava insomma il cosidetto lock-down, davanti a tutte quelle informazioni da tutto il mondo che cambiavano ogni ora. Ho avuto una settimana/dieci giorni in cui ho praticamente evitato, più o meno inconsciamente, tutte le notizie che stavano arrivando e mi sono concentrato su notizie più positive, soprattutto magari notizie positive sul lato del mio lavoro, dell’innovazione, del tech che mi dessero speranza, insomma nel futuro mio lavorativo e personale. Però, a parte quello, non ho mai avuto forti reazioni di rigetto. Forse perché, appunto, facendo questo lavoro da anni so più o meno contestualizzare la notizia e le so dare l’importanza che merita.”

«Si potrebbe pensare che certe notizie siano cattive per natura: una guerra, ad esempio, non può che farci stare male, a prescindere da come viene riportata. Che ne pensi?»

La risposta di Francesco Oggiano: “Una guerra non può che farci stare male? Sì, ma non credo che sia a prescindere da come viene raccontata. Ci sono modi e modi di raccontare una guerra. Lo stiamo vedendo con quella in Ucraina. C’è il modo diciamo più superficiale, splatter, ovvero ogni giorno io ti posso bombardare di video, di sangue, di bombardamenti, di notiziole con un testo e un commento in analisi che passa in secondo piano rispetto all’immagine. E sono sicuro che farò molti click sul breve termine, molta audience. Poi, sul lungo tu giustamente ti stancherai e praticherai la news avoidance, cioè inizierai a evitare quel tipo di notizie perché sarai sommerso da quelle immagini che ti faranno stare male. Oppure c’è un altro modo di raccontare una guerra che, ovviamente accanto all’elemento visivo, mette nei commenti delle analisi e delle contestualizzazioni in cui ti faccio capire cosa sta avvenendo con una maggiore importanza, appunto, all’approfondimento e alla contestualizzazione. E questo, secondo me, non so se potrà farti stare meglio, ma sicuramente ti farà dominare di più quell’argomento e una volta che noi conosciamo qualcosa sicuramente ne abbiamo meno paura e, se ne abbiamo meno paura, sicuramente stiamo meno male.”

«Abbiamo l’impressione che alcune redazioni sottovalutino i possibili effetti psicologici di raccontare “male” le cattive notizie. È un pregiudizio.

La risposta di Francesco Oggiano: “Allora, non so se sottovalutiamo i possibili effetti psicologici. Però di sicuro a volte c’è sicuramente una tendenza, come dicevo prima, a mostrare magari le cattive notizie fini a sé stesse bombardando il letto di video, immagini e informazioni, come dire…splatter…fini a sé stesse, con la speranza soltanto magari di fare click e quindi aumentare il proprio modello di business. A livello personale non ho mai fatto corsi sui possibili effetti psicologici che le cattive notizie hanno su chi le legge e questo mi piacerebbe molto e in effetti potrebbe essere un’ottima idea.”

«Anche chi legge e condivide le cattive notizie ha una parte di responsabilità. Cosa possiamo fare per aiutare i media a raccontare i problemi in modo più consapevole?».

La risposta di Francesco Oggiano: “Cosa si può fare? Lato giornalisti, in America sta nascendo tutta una branca del constructive journalism ovvero un giornalismo costruttivo in cui accanto alla presentazione della notizia cattiva cerco di darti anche qualcosa di più costruttivo. Non ti do solo la brutta notizia fine a sé stessa, ma poi chiudo un pochino l’articolo con degli esempi costruttivi di chi magari nel mondo sta facendo qualcosa di positivo per risolvere quel problema di cui ho parlato. E quindi il giornalismo costruttivo è come se si fondasse su due tempi che stanno all’interno dello stesso articolo. Nel primo tempo ti spiego il problema. Nel secondo ti spiego magari quali sono le possibili soluzioni, cosa va fatto e chi si sta muovendo per risolverlo. Lato utenti: due cose. Non condividere magari quelle notizie fini a sé stesse che potrebbero far stare male altre persone. Ovvero potrebbero creare una delle emozioni della rabbia, dell’indignazione, della tristezza che non sono positive, nel senso che non danno poi luogo a delle azioni perché la rabbia in sé non credo sia negativa quando serve a smuoverci, a cercare di raggiungere i nostri obiettivi e di cambiare il mondo. Ma io intendo quella rabbia fine a sé stessa, contrita, che porta solo a un maggiore odio online e maggiore rabbia anche verso sé stessi. Seconda cosa che si può fare è ovviamente privilegiare di più quei media che presentano le brutte notizie con analisi, contesto, contestualizzazioni e spiegazioni, in maniera il più professionale ed equilibrata possibile.”

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