Attaccamento evitante: definizione, origine, caratteristiche e conseguenze

Superare un modello di attaccamento evitante può portare a una maggiore consapevolezza emotiva e a relazioni più soddisfacenti.

Nell’ambito della psicologia dello sviluppo, una teoria molto discussa è quella dell’attaccamento, secondo la quale le dinamiche che caratterizzano gli scambi che avvengono tra la mamma e il suo bambino nei primi mesi e anni di vita si consolidano in veri e propri modelli operativi interni fino a condizionare, in certa misura, le interazioni con gli altri in età adulta.

Per ciascuna diade si forma un particolare stile di attaccamento: evitante, sicuro, ambivalente o disorganizzato, indicati ciascuno con una lettera dell’alfabeto dalla A alla D. ma che cosa vuol dire esattamente? In questo articolo prenderemo in esame l’attaccamento evitante (ovvero il pattern A) per cercare di capire se sia funzionale o problematico, come si può riconoscere e quali conseguenze comporta nello sviluppo della persona.

La nascita della teoria dell’attaccamento

Il progenitore della teoria dell’attaccamento fu John Bowlby, uno psicoanalista britannico che dimostrò come il legame che si forma tra madre e figlio nelle prime battute di vita è essenziale nel determinare il modo in cui, crescendo, la persona interagisce con il mondo e anche alcuni tratti di personalità.

A sua volta, Bolby ha tratto il fondamento del suo pensiero dal lavoro e dall’esperienza di Konrad Lorenz, un etologo che ha condotto degli esperimenti, divenuti molto famosi, sulle anatre, per studiare proprio la formazione dell’affiliazione tra cucciolo e genitore. Nell’esperimento del guanto giallo, Lorenz propose questo oggetto come primo stimolo a un anatroccolo appena uscito dall’uovo, e osservò che il piccolo, identificando il guanto giallo come una figura corrispondente alla madre, iniziò istintivamente a seguirlo ovunque, in cerca di protezione e accudimento.

Ma l’etologo non si era mai servito del guanto per svolgere le funzioni che normalmente i genitori assolvono nei confronti della prole, ad esempio portare nutrimento, calore e prendersi cura dei neonati. Ciò significa che l’anatroccolo seguiva il suo istinto a cercare una figura materna come punto di riferimento, indipendentemente da chi essa fosse. Lo stesso avviene per i bambini: il loro bisogno di essere accuditi li porta a cercare di costruire e mantenere un legame con qualcuno che possa prendersi cura di loro. A prescindere dalle qualità e dai difetti del genitore, il piccolo farà il possibile per conservare la vicinanza con la mamma, e questo concetto prende proprio il nome di attaccamento.

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I pattern di attaccamento

I primi scambi comunicativi tra madre e bambino sono determinanti nello stabilire il pattern di attaccamento che si formerà. Si tratta di modalità di comportamento che vengono messe in atto in modo costante, e per questo motivo assumono una precisa configurazione. Più precisamente, possiamo trovare:

  • l’attaccamento sicuro (pattern B): il bambino sa di poter mantenere facilmente la vicinanza con la mamma, che è molto responsiva e si dimostra in grado di accogliere tutti i suoi bisogni senza essere assillante;
  • due tipi di attaccamento insicuro: nell’attaccamento evitante (pattern A) la vicinanza della mamma viene avvertita come condizionata. Se il bambino manifesta delle emozioni negative, la madre non le accoglie, anzi si allontana emotivamente. Questo induce il bambino a imparare presto a celare le emozioni negative e a manifestare solo quelle positive. Sono bambini molto indipendenti, che spesso preferiscono cavarsela da soli nei momenti di difficoltà piuttosto che infastidire il genitore. Nell’attaccamento ambivalente (pattern C), invece, avviene il contrario. La mamma può essere confusiva, avere delle reazioni tragiche ed essere particolarmente responsiva alle emozioni negative del piccolo, fino a essere soffocante. Il bambino, allora, interiorizza che l’unico modo sicuro per tenere vicino a sé la mamma è manifestare un’emotività negativa. Sono bambini estremamente insicuri, che dipendono completamente dall’altro e non hanno fiducia in se stessi, perché sono convinti di avere un valore ed essere degni di attenzione solo quando sono in difficoltà;
  • l’attaccamento disorganizzato (pattern D): in questo caso le reazioni della mamma sono completamente incoerenti, al punto che il piccolo non riesce a trovare un filo conduttore e delle dinamiche che potrebbero aiutarlo a mantenere il contato con il genitore, che a volte è disponibile, ma il più delle volte no. Ne risulta un pattern scostante, che trae elementi dagli altri tre ma senza un senso logico, dal quale deriva una grande difficoltà a mantenere il legame.

A questo punto occorre una precisazione: è sbagliato pensare che l’attaccamento sicuro sia l’unico corretto. Tutto dipende, infatti, dalla particolare interazione che mamma e bambino intraprendono: a seconda di questa, il bambino forma un modello operativo interno che in automatico innesca le reazioni necessarie a mantenere la vicinanza emotiva della mamma. A questo proposito, quindi, anche i due tipi di attaccamento insicuro sono funzionali, quindi vanno bene nella misura in cui consentono alla diade di rimanere solida.

Al contrario, il pattern disorganizzato è spesso problematico e può essere un fattore che predispone alla psicopatologia. Spesso la stessa mamma, che dal bambino viene vissuta come scostante e spaventante, soffre di un disturbo mentale.

Come riconoscere l’attaccamento evitante

A livello sperimentale, esiste un modo per riconoscere con sicurezza l’attaccamento evitante: si tratta del protocollo della Strange Situation, elaborato dalla psicologa Mary Ainsworth negli anni ‘80. Nella procedura vengono messe in scena una serie di situazioni di separazione e ricongiungimento tra mamma e bambino, nel corso delle quali vengono osservate le reazioni del piccolo, specialmente quelle al momento del ritorno della mamma.

In generale, i bambini con attaccamento evitante, abituati a vivere dentro una corazza dalla quale non possono mai uscire emozioni negative, rimangono apparentemente molto calmi quando la mamma se ne va (anche se altri studi hanno dimostrato che hanno elevatissimi livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, nel sangue, segno che in realtà stanno trattenendo il loro disagio). Un bambino sicuro, quando la mamma se ne va, piange, mentre uno ambivalente protesta disperato.

Ma la reazione più sconvolgente si ha al rientro del genitore: il bambino con attaccamento sicuro cerca la mamma e la accoglie con calore, l’ambivalente appare inconsolabile, mentre il piccolo con attaccamento evitante può ignorare del tutto il genitore o addirittura allontanarlo, preferendo continuare le attività che stava svolgendo.

Ma da dove origina questa reazione di apparente disinteresse? Dal fatto che nelle interazioni quotidiane la mamma si dimostra poco disponibile a consolare il piccolo quando è triste, si fa male o ha semplicemente bisogno di coccole. Sono mamme che non tollerano i capricci e, in un certo senso, pensano di avere a che fare con dei piccoli adulti, che da subito devono essere disciplinati ed essere in grado di controllare le loro emozioni negative.

Questo non vuol dire che siano mamme anaffettive: dimostrano il loro amore al bambino con un ampio uso di vezzeggiativi e ricoprendoli di giocattoli e premi, ma che di fatto lasciano passare involontariamente il messaggio – ovviamente falso – che l’amore che provano per il figlio è condizionato.

Il risultato è che il piccolo cresce nella convinzione di essere degno di amore solo se non dà preoccupazioni, si comporta bene, raggiunge determinati livelli di performance e si dimostra capace di gestire da solo i suoi problemi. Sono bambini che crescono in fretta, che imparano presto a essere indipendenti a livello emotivo, perché sanno che i loro bisogni non verranno accolti di buon grado.

Attaccamento evitante ed effetti sugli adulti

Ovviamente questo pattern ha delle ripercussioni anche sullo sviluppo della personalità del bambino e, in età adulta, nella modalità in cui si svolgono le interazioni con gli altri.

In particolare, il bambino evitante crescerà nell’insicurezza rispetto alle relazioni: se l’amore è condizionato, non vale la pena investire sugli altri, perché potrebbero sempre abbandonarmi. A livello affettivo, questa modalità che vorrebbe essere protettiva, risulta limitante per gli adulti con attaccamento evitante, perché li spinge a intrattenere relazioni per lo più superficiali.

Queste persone preferiscono preservarsi dalla sofferenza mantenendo sempre un certo distacco dagli altri. In questo modo sono convinti che eviteranno di soffrire, ma agli occhi degli altri appaiono freddi e insensibili, o addirittura incapaci di provare amore, quando in realtà hanno semplicemente eretto intorno a sé un’armatura che li protegga da eventuali rifiuti.

Questo atteggiamento risulta funzionale perché solitamente le persone che da piccole hanno sviluppato un attaccamento evitante hanno una bassa autostima (scopri i nostri consigli sulle letture per chi ha problemi di autostima) e sono convinte che il loro valore sia legato a determinate qualità positive o a quanto sono brave e capaci in qualcosa.

Insomma, in età adulta l’attaccamento evitante può dare luogo a persona che sembrano molto forti ed emotivamente indipendenti, ma che in realtà sono alla continua ricerca dell’approvazione dell’altro, cercando di apparire perfette. Tuttavia, non riescono a concedere fiducia agli altri, non manifestano mai i loro sentimento negativi e, in questo modo, riescono a vivere l’aspetto sociale solo in modo tangenziale.

Attaccamento evitante: che cosa fare?

Se pensi che alcune tue modalità di comportamento siano state forgiate da un attaccamento evitante, non devi preoccuparti: come abbiamo detto, non si tratta di una patologia, ma di una dinamica interattiva che riguarda molte diadi madre-bambino e che aiuta a mantenere stabile il legame e la vicinanza emotiva.

Non devi, quindi, pensare a come curare il tuo attaccamento evitante, perché è semplicemente il pattern che hai assimilato e pensare di modificarlo è impossibile. Ma, come abbiamo visto, le ripercussioni che ne derivano possono portare parecchie complicazioni, e in certi casi è più utile intervenire su quelle.

Ad esempio, se non riesci a intrattenere delle relazioni durature perché fai fatica a fidarti degli altri, hai un blocco nell’esprimere le tue emozioni negative o hai una bassa autostima che a volte ti porta a pensare di non meritare amore, potresti pensare di intraprendere un percorso con un professionista della salute mentale.

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Revisori

reviewer

Dott. Domenico De Donatis

Medico Psichiatra

Ordine dei Medici e Chirurghi della provincia di Pescara n. 4336

Laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Parma. Specializzazione in Psichiatria presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.

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Dott. Federico Russo

Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Neuropsicologo, Direttore Clinico di Serenis

Ordine degli Psicologi della Puglia n. 5048

Laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti. Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a indirizzo neuropsicologico presso l’Istituto S. Chiara di Lecce.

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Dott.ssa Martina Migliore

Psicologa Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Ordine degli Psicologi dell'Umbria n.892

Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, docente e formatrice. Esperta in ACT e Superhero Therapy. Membro dell'Associazione CBT Italia, ACT Italia e SITCC. Esperta nell'applicazione di meccaniche derivanti dal gioco alle strategie terapeutiche evidence based e alla formazione aziendale.