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La copertina della puntata: tanti modi diversi di ridere, accanto alla scritta "Perché ridiamo?".La copertina della puntata: tanti modi diversi di ridere, accanto alla scritta "Perché ridiamo?".La copertina della puntata: tanti modi diversi di ridere, accanto alla scritta "Perché ridiamo?".

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Oggi parliamo di risate

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È febbraio, ma stai al gioco: galleggi a pancia in su da qualche parte nei Caraibi. Il sole è simpatico e il mare è una tavola: compatisci chi in quel momento si trova in un ufficio a scrivere newsletter.

Poi l’onda di una nave ti raggiunge e ti rovescia. Sputi un po’ d’acqua, ma niente di grave. Scopri che la riva è più vicina di quello che pensavi.

1.

Le emozioni si comportano in modo simile. Arrivano senza avvisare, reclamando tutta la nostra attenzione. E anche se non sembra, hanno il potere di spostarci.

2.

Alcune ci allontanano dalle altre persone. Quando proviamo disgusto, imbarazzo o paura, istintivamente aumentiamo la distanza da chi ci fa sentire a disagio.

3.

Poi ci sono le emozioni che avvicinano: è il caso della rabbia e della gioia. In quei momenti ci muoviamo verso l’altra persona per condividere quello che proviamo.

In genere associamo le risate alle emozioni del secondo tipo, e in particolare alla gioia. La realtà però è più complessa.

Ridiamo per esprimere felicità, piacere o sollievo. Ma anche per mascherare emozioni più spiacevoli, come tristezza, confusione o imbarazzo.

Da una situazione imbarazzante vorremmo scappare, nasconderci, ma sarebbe un comportamento socialmente anomalo: finiremmo per peggiorare le cose. Per fortuna, l’esperienza ci ha insegnato che riderci sopra è una buona strategia difensiva.

Pur non avendo nulla a che fare con la felicità, quel tipo di risata aiuta a non allontanarsi troppo dalle altre persone. E in questo senso ci avvicina a loro, anche se in un modo più tattico di quella “allegra”.



Questa è una prima (e parzialissima) risposta alla nostra domanda: la risata ha una funzione sociale. Nel 1989, Robert Provine e Kenneth Fisher dimostrarono che era 30 volte più probabile ridere in gruppo che in solitudine.

Poi c’è anche una seconda risposta.

Una persona triste di fronte allo specchio, che guarda la sua immagine riflessa che ride.

È febbraio, ma stai al gioco: galleggi a pancia in su da qualche parte nei Caraibi. Il sole è simpatico e il mare è una tavola: compatisci chi in quel momento si trova in un ufficio a scrivere newsletter.

Poi l’onda di una nave ti raggiunge e ti rovescia. Sputi un po’ d’acqua, ma niente di grave. Scopri che la riva è più vicina di quello che pensavi.

1.

Le emozioni si comportano in modo simile. Arrivano senza avvisare, reclamando tutta la nostra attenzione. E anche se non sembra, hanno il potere di spostarci.

2.

Alcune ci allontanano dalle altre persone. Quando proviamo disgusto, imbarazzo o paura, istintivamente aumentiamo la distanza da chi ci fa sentire a disagio.

3.

Poi ci sono le emozioni che avvicinano: è il caso della rabbia e della gioia. In quei momenti ci muoviamo verso l’altra persona per condividere quello che proviamo.

In genere associamo le risate alle emozioni del secondo tipo, e in particolare alla gioia. La realtà però è più complessa.

Ridiamo per esprimere felicità, piacere o sollievo. Ma anche per mascherare emozioni più spiacevoli, come tristezza, confusione o imbarazzo.

Da una situazione imbarazzante vorremmo scappare, nasconderci, ma sarebbe un comportamento socialmente anomalo: finiremmo per peggiorare le cose. Per fortuna, l’esperienza ci ha insegnato che riderci sopra è una buona strategia difensiva.

Pur non avendo nulla a che fare con la felicità, quel tipo di risata aiuta a non allontanarsi troppo dalle altre persone. E in questo senso ci avvicina a loro, anche se in un modo più tattico di quella “allegra”.



Questa è una prima (e parzialissima) risposta alla nostra domanda: la risata ha una funzione sociale. Nel 1989, Robert Provine e Kenneth Fisher dimostrarono che era 30 volte più probabile ridere in gruppo che in solitudine.

Poi c’è anche una seconda risposta.

(Ma proprio tanto tanto bene)

Abbassa lo stress

Perché modifica il livello degli ormoni che ne sono responsabili, come il cortisolo, la somatotropina e l’adrenalina.

Riduce il dolore

Ridendo rilasciamo endorfine, sostanze chimiche che hanno effetti analgesici e ce lo fanno sopportare meglio.

Allunga la vita

Avere senso dell'umorismo sembra ridurre la mortalità per le malattie infettive (negli uomini) e cardiovascolari (nelle donne).

22%

L’aumento della circolazione sanguigna osservato durante la risata, in uno studio che hai coinvolto 730 adulti tra i 18 e i 39 anni.

Studio: International Journal of Medical Sciences

60%

L’aumento del rischio di ictus in chi ride raramente rispetto a chi lo fa spesso, secondo una ricerca svolta su quasi 21.000 giapponesi.

Studio: Journal of Epidemiology

(Ma proprio tanto tanto bene)

Abbassa lo stress

Perché modifica il livello degli ormoni che ne sono responsabili, come il cortisolo, la somatotropina e l’adrenalina.

Riduce il dolore

Ridendo rilasciamo endorfine, sostanze chimiche che hanno effetti analgesici e ce lo fanno sopportare meglio.

Allunga la vita

Avere senso dell'umorismo sembra ridurre la mortalità per le malattie infettive (negli uomini) e cardiovascolari (nelle donne).

22%

L’aumento della circolazione sanguigna osservato durante la risata, in uno studio che hai coinvolto 730 adulti tra i 18 e i 39 anni.

Studio: International Journal of Medical Sciences

60%

L’aumento del rischio di ictus in chi ride raramente rispetto a chi lo fa spesso, secondo una ricerca svolta su quasi 21.000 giapponesi.

Studio: Journal of Epidemiology
La foto dell'ospite di questa puntata: Mattia Marangon.

La risata è al tempo stesso universale e soggettiva: quando la vediamo la riconosciamo subito, anche in una persona che non parla la nostra lingua. Ma per ridere insieme a qualcuno dobbiamo avere le sue stesse informazioni, o condividere la stessa rete di significati.

Ne abbiamo parlato con Mattia Marangon (@maranga9000), co-fondatore di Legolize, un media-brand che dal 2016 fa ridere milioni di persone con un tipo di umorismo che si ama o si odia. Ecco cosa gli abbiamo chiesto e le sue risposte.

«Semplificando, potremmo dire che avete costruito una community molto grande che ride per le stesse cose. Diresti che le persone che vi seguono sono molto simili? O c’è più eterogeneità di quello che sembra?»

«Allora, la community è molto grande, ride per le stesse cose, però in realtà è super eterogenea, nel senso che – lo vediamo principalmente su Instagram – abbiamo un pubblico che è veramente variegato e frammentato. Ci seguono sia i ragazzini, quelli un po' più giovani, sia un pubblico molto più grande, anche di 50-60 anni, con una percentuale un po' più tendente al pubblico maschile (però comunque verso la fascia 55-45).

E in realtà è anche il nostro potere: siamo talmente orizzontali che arriviamo veramente a tutti. Infatti, se a molte persone che non conoscono Legolize fai vedere una vignetta, dicono “ah sì, ho presente”, perché magari l’hanno ricevuta sul gruppo di famiglia, dalla zia che l'ha trovata da qualche parte.

Cambia ancora di più quando si cambia piattaforma, perché noi nasciamo su Facebook, dopo come canale principale abbiamo Instagram, ma siamo anche su TikTok, LinkedIn, YouTube... su ogni piattaforma c'è un pubblico diverso che cerca contenuti diversi, quindi cambiamo anche modo di comunicare tra piattaforma e piattaforma. In questo modo andiamo ad ampliare il nostro pubblico, che è anche il nostro obiettivo: colpire un po' tutti e veicolare anche messaggi di un certo tipo, per creare l'impatto più grande possibile».

«Per far ridere bisogna ridere? O detta in un altro modo: ridere è il tuo lavoro?»

«Io sono comunque una persona molto aperta, solare, quindi il fatto di far ridere era solamente un po' mettere a terra il mio (e anche il nostro) modo di vivere la vita. Detta così sembra un po' da guru, però ridere di base è un po' il motivo, il leitmotiv per cui è nata la pagina. Per esprimere le nostre idee, la nostra creatività. Di base noi siamo copy che utilizzano gli omini Lego per comunicare. L'omino Lego è un mezzo di comunicazione per raccontare certe tematiche, e per far ridere principalmente».

«C’è chi crede che si possa ridere di tutto e chi pensa che certi argomenti non andrebbero toccati. Voi da che parte state? Avete dei paletti?»

«Io ti parlo dalla posizione di una persona totalmente privilegiata, quindi non avrei tanta voce in capitolo, nel senso che comunque io rido un po' per tutto. Però dopo capisco che nel momento in cui vai a comunicare a milioni di persone (noi ogni mese raggiungiamo venti milioni di persone) puoi capire l'impatto che ha ogni nostro contenuto. E quindi abbiamo adottato una politica diciamo non troppo rigida, però assolutamente con dei paletti.

Cerchiamo sempre di essere inclusivi, soprattutto su una piattaforma come LinkedIn, di parlare di sostenibilità, magari di ironizzare su certi luoghi comuni per andare a sdoganare certe abitudini, soprattutto anche lavorative, ed è un po' il nostro modo di comunicare. Però quello che cerchiamo di fare è adottare un linguaggio e un modo di comunicare un po' per tutti.

Dopo ogni tanto, per carità, ci può scappare la parolaccia, però comunque fa parte anche del nostro tono di voce. Dall'altra parte, a livello di temi seguiamo certi standard, per non discriminare assolutamente nessuno».

«Nelle vostre giornate no, dover far ridere vi aiuta a stare meglio? O diventa più difficile del solito?»

«Allora, diciamo che non è che dobbiamo far ridere tutti i giorni, perché alla fine il nostro lavoro non è propriamente fare i comici, ma è creare contenuti. Quindi abbiamo una struttura organizzata che ci permette di organizzare il lavoro per creare in anticipo i contenuti, magari quando siamo anche ispirati e quando magari abbiamo delle idee, ci sentiamo più simpatici, diciamo così. Dopo le pubblichiamo e le distribuiamo nel corso del tempo.

Dall'altra parte sappiamo l'impatto che abbiamo con i nostri contenuti. Più volte delle persone ci hanno scritto ringraziandoci, perché grazie ai nostri contenuti sono riusciti ad affrontare magari dei momenti un po' più difficili della loro vita, perché entravano su Instagram, trovavano la nostra battuta e quindi riuscivamo a strappare un sorriso, nonostante magari la situazione fosse quella che era, soprattutto magari anche nella fase di lockdown.

Quindi questa è la principale motivazione che ci spinge a creare un sacco di contenuti e soprattutto a far ridere, a portare leggerezza sulle varie piattaforme e alla nostra community».

Quante informazioni, vero?
Facciamo una pausa.

Com'è andata?


Questo esercizio si basa sulla teoria periferica delle emozioni, secondo cui gli stimoli provocano delle variazioni fisiologiche inconsapevoli, che a loro volta fanno nascere i nostri stati emotivi. In pratica non ridiamo perché siamo felici, ma siamo felici perché ridiamo.



È una teoria che ha quasi 150 anni, e nel corso del tempo ha subito critiche, conferme e modifiche. Ci sono invece pochi dubbi sul fatto che ridere sia una medicina, come dice il proverbio: ecco qualche consiglio per farlo più spesso.

Scopri quello che ti fa ridere.

Può essere qualsiasi cosa, dalla comicità osservazionale ai video dei gatti. Quando l’hai scoperto, aumenta la frequenza. È il classico suggerimento così ovvio da non venire in mente.

Se una situazione ti sembra troppo pesante, ridici su.

Non serve a risolverla: serve a normalizzarla. È difficile, ma se ci riesci smorzerai l’impatto emotivo, che spesso è così forte da nascondere la soluzione, o il percorso che serve per raggiungerla.

Impara a ridere per conto tuo.

Soprattutto se i tuoi gusti non coincidono con quelli di chi hai intorno. Non devi giustificare il tuo senso dell’umorismo, né aspettarti che sia condiviso: avrete altre occasioni per ridere insieme.

(E fallo a voce alta).

Può capitare di dover trattenere una risata, ma farlo troppo spesso rischia di farti credere che sia una cosa sbagliata. Se hai questa abitudine, prova la strategia opposta: ridi un po’ più forte del normale.

Il filo continua

Per approfondire, dai un'occhiata a questi contenuti che non abbiamo fatto noi.